NIENTE DI NUOVO...   

Mi siedo a tavola ed alla televisione non si parla che di guerre o gossip. Talvolta si mescola addirittura le due cose, come se ciò che ci viene raccontato spacciato come notizia dai media, non sia in realtà, altro che una ulteriore forma di "intrattenimento". Guardo i miei vecchi libri di storia e mi accorgo che come umanità non abbiamo mai, mai imparato nulla! Mentre scartabello i miei libri trovo anche un vecchio romanzo che ho letto durante la mia adolescenza. E' un best seller tradotto in molte lingue e venduto in milioni di copie. Viene definito come uno dei più significativi libri pacifisti del '900. Eppure, a guardare ciò che ci viene ogni giorno raccontato, si direbbe che ben in pochi lo hanno letto. Si tratta di un romanzo che racconta il I conflitto mondiale,  visto dalla parte dei vinti, simbolicamente rappresentati da un gruppo di studenti tedeschi illusi dalla propaganda militarista.  Uno ad uno, essi, soccomberanno, ma non prima di aver preso coscienza del tragico inganno di cui sono stati le vittime.

Ho deciso di riportare integralmente l'ultimo capitolo del libro. Molti non saranno d'accordo sul fatto ch'io vi proponga la fine del libro, ma essa rappresenta la sublimazione del messaggio dell'autore e sono convinto che chi leggerà questo capitolo non potrà fare a meno di leggere anche il resto del libro, e, spero, di pensare...

 

CAPITOLO XI

E’ l’autunno. Dei vecchi compagni non siamo più in molti qui. Io sono l’ultimo dei sette che venimmo insieme da scuola.

Tutti parlano di pace e di armistizio. Tutti aspettano. Se anche questa volta fosse una delusione, guai; le speranze son troppo forti, non si possono più rintuzzare senza farle esplodere. Se non sarà la pace, sarà la rivoluzione.

Mi danno due settimane di riposo, perché ho respirato un po’ di gas. Siedo in un piccolo giardino, tutto il giorno al sole . L’armistizio viene tra poco, ora lo credo anch’io. Ce ne andremo a casa.

Qui i miei pensieri si interrompono e non vogliono fare un passo innanzi. Ciò mi trascina e mi attira, sono dei sentimenti. E’ bramosia di vita, è nostalgia della mia casa, è il sangue che pulsa, è l’ebbrezza di essere salvo; ma non sono propositi definiti.

            Se fossimo tornati a casa nel 1916, dal dolore e dalla forza delle nostre esperienze si sarebbe sprigionata la tempesta. Ritornando ora, siamo stanchi, depressi, consumati, privi di radici, privi di speranze. Non potremo mai più riprenderci il nostro equilibrio.

            E neppure ci potranno capire. Davanti a noi infatti sta una generazione che ha, sì, passato con noi questi anni, ma che aveva già prima un focolare ed una professione, ed ora ritorna ai suoi posti d’un tempo, e vi dimenticherà la guerra; dietro a noi sale un’altra generazione, simile a ciò che fummo noi un tempo; la quale ci sarà estranea e ci spingerà da parte. Noi siamo inutili a noi stessi. Andremo avanti, qualcuno si adatterà, altri si rassegneranno, e molti rimarranno disorientati per sempre; passeranno gli anni, e finalmente scompariremo.

            Ma forse anche questo che penso non è che malinconia e smarrimento; forse svanirà quando sarò sotto i miei pioppi, e ascolterò il mormorio del loro fogliame. Non può essere del tutto scomparsa, quella tenerezza che ci turbava il sangue, quell’incertezza, quell’inquietudine di ciò che doveva giungere, i mille volti dell’avvenire, la melodia dei sogni e dei libri, il fruscio lontano, il presentimento della donna: non può essere scomparso tutto sotto questo fuoco tambureggiante, nella disperazione, nei bordelli di truppa.

            Gli alberi qui splendono variopinti e dorati, le bacche del sorbo rosseggiano tra il verde, le strade corrono bianche verso l’orizzonte e le cantine sembrano alveari ronzanti per le voci di pace.

            Mi alzo: sono molto contento. Vengano i mesi e gli anni, non mi prenderanno più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranze che posso guardare dinanzi a me privo di timore. La vita, che mi ha portato attraverso questi anni, è ancora nelle miei mani e i miei occhi. Se io abbia saputo dominarla, non so. Ma finchè dura, essa si cercherà la sua strada, vi consenta o non vi consenta quell’essere, che nel mio interno dice “Io”.

 

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

            Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così.

 

Eric Maria Remarque

(Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale)

 

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